Quella
che sto per raccontarvi è la storia di uomini che, con la loro passione
ed il loro lavoro hanno diversamente collaborato ad un progetto
importante che avrebbe, da allora in avanti, cambiato la concezione
meccanica applicata alle motociclette della “Casa dell’Aquila dalle ali
spiegate”. Sembra essere una leggenda ciò che si narra riguardo al
concepimento della maxi turistica di Mandello del Lario.
Era il 28 Febbraio del 1956 quando, durante la visita ufficiale negli Stati Uniti dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi, egli ammirò le mastodontiche e potenti Harley-Davidson
in dotazione alla scorta presidenziale e ne rimase colpito, tanto da
operar subito un confronto tra le motociclette di Milwaukee le nostrane,
gloriose, ma già vetuste per l’epoca, Moto Guzzi Falcone, i centauri
delle quali erano proprio i Corazzieri: la sua scorta personale. Per
ovviare al problema d’immagine che si sarebbe creato, Gronchi decise
quindi di ordinare una ventina di Harley-Davidson per i suoi Corazzieri
ma, nel suo entourage, gli fecero notare che sarebbe stato poco
opportuno acquistare motociclette estere proprio da parte del
rappresentante di uno dei Paesi di maggior prestigio mondiale quanto a
cultura e produzione motociclistica, soprattutto in un momento di forte
crisi del settore. La burocrazia statale quindi, avendo ormai ricevuto
tale input,
si mise lentamente, ma inesorabilmente in movimento per dotare le forze
armate di motocicli moderni ed all’altezza della situazione e del
prestigio dell’Italia.
Il 23 maggio1963
fu bandito un concorso pubblico per la fornitura alle forze armate di
un motociclo che si desiderava: robusto, veloce e tanto affidabile da
poter percorrere almeno 100.000 Km senza rotture, interventi meccanici
lunghi o manutenzioni straordinarie. La commessa si annunciava
importante, tanto che le maggiori Case motociclistiche italiane, tutte
afflitte dalla crisi determinata dalla grande motorizzazione
automobilistica di massa, avviata dalla Fiat, prepararono le loro
proposte per i severissimi collaudi previsti. Tra queste vi era la Moto
Guzzi, che in quegli anni era in una difficile e dura fase
amministrativa di transizione che, in seguito alla morte di Giorgio Parodi e alla grave malattia di Carlo Guzzi, veniva gestita dal fratello del co-fondatore Enrico Parodi, in attesa di essere assorbita, nel Febbraio1967, dalla SEIMM. L’incarico di capo-progetto venne affidato al valente ingegner Giulio Cesare Carcano, assistito dall’ottimo team formato da Enrico Cantoni e Umberto Todero.
Così
come da loro progettato e costruito, il propulsore della V7 è divenuto
uno dei motori più celebri della produzione motociclistica mondiale, ma
le sue origini erano ben più remote del “progetto V7” e non relative
all’impiego prettamente motociclistico. Infatti, il celeberrimo
bicilindrico a “V” fu progettato nel 1959 per autonoma ed esclusiva
iniziativa di Giulio Cesare Carcano, al precipuo scopo di proporre alla Fiat una valida alternativa all’equipaggiamento della versione sportiva del modello “Nuova 500”. Due anni prima, però, le case italiane: Moto Guzzi, Mondial e Gilera avevano siglato il celebre “patto d’astensione”, che le impegnava a non partecipare ufficialmente alle competizioni del motomondiale,
considerate economicamente molto gravose. Il “reparto corse” della Moto
Guzzi venne quindi trasformato in “reparto sperimentazione” ed ebbe il
compito di studiare i modelli che avessero offerto alla Casa madre nuovi
sbocchi produttivi. Il motore a “V” fu quindi realizzato nella prima
versione-prototipo di 594 cc e montato su una Fiat “Nuova 500 D”. Per
l’aumento delle sue prestazioni, la vetturetta venne dotata di tamburi maggiorati, proprio per ottenere una frenata più sicura. La “500” con motore Guzzi, infatti, disponeva di 34 CV, in luogo dei 18 originali ed era capace di raggiungere una velocità massima di 138 km/h,
con accelerazioni di tutto rispetto. L’ottimo risultato venne testato
dalla Fiat, ma non si giunse ad un accordo di collaborazione tra le due
aziende ed il progetto fu purtroppo accantonato. Successivamente, il
propulsore a “V”, nuovamente modificato e riadattato, fu anche
utilizzato, come prototipo, per il cosiddetto “Mulo meccanico 3X3” destinato agli alpini. Lo stesso diverrà nel tempo l’icona moderna della Moto Guzzi .
La
Moto Guzzi V7 700 cc fu presentata ufficialmente nel 1965 al Salone del
Ciclo e Motociclo di Milano ed ebbe da subito molto successo. Le sue
principali doti erano: grande affidabilità, la quasi sempiterna
resistenza e, per quell’epoca una forte potenza fin dai più bassi
regimi. Possedeva il potente bicilindrico a “V” di 90° frontemarcia, che
diventò l’invincibile capostipite di una lunghissima progenie di due
cilindri che ancora oggi ogni modello di Moto Guzzi sfoggia con grande
baldanza. La versione originaria, siglata semplicemente “V7” ed era dotata di un motore da 703 cc: si trattava di una maxi motocicletta da strada, priva di orpelli e superfetazioni se non di un paracilindri cromato; le mancavano addirittura gli indicatori di direzione.
La lunga e comoda sella permetteva comodamente un viaggio, anche lungo,
in due persone, vista anche la sua chiara indole e l’ottima velocità di
crociera che era in grado di raggiungere senza sforzo alcuno. Uno dei
suoi tratti distintivi era la presenza di eleganti svasature cromate a
specchio ai lati del generoso e morbido serbatoio, create proprio in
corrispondenza delle ginocchia del centauro, affinchè egli avesse una
giusta postura di guida in tutta sicurezza. L’unico appunto alla quasi
perfezione del pregevole esemplare delle fotografie è che il fanale
posteriore doveva essere rettangolare con la cornice in alluminio e non
tondo in dotazione alle serie successive della V7.
La maxi
Moto Guzzi aveva all’epoca, come rivali, sia la Bmw R60/5, sicuramente
più blasonata, rifinita, ma meno tetragona, che la Bsa Lightning, molto
elegante, ma irrimediabilmente delicata, come tutte le britanniche. Il
propulsore Guzzi pesava ben 92 Kg, comprensivi del blocco trasmissione
ed era dotato di un unico albero a camme al centro della “V” dei due
cilindri; la distribuzione era ad aste e bilancieri, molto robusta e
duratura, mentre l’albero motore, in acciaio ed in un unico pezzo,
risultava essere molto robusto. I due imponenti cilindri in lega leggera
avevano una particolarità apparsa per la prima volta in ambito
motociclistico: le canne cromate. Le valvole erano inclinate di 70°, i
due carburatori Dell’Orto SSI da 29 mm efficaci e ben rapportati
all’intera meccanica; l’accensione a spinterogeno poteva definirsi
pratica e, per quei tempi, adatta ad un uso prettamente automobilistico.
La frizione, con la sua leva tendenzialmente dura da azionare, ma
precisa, era a doppio disco a secco ed il cambio a quattro rapporti
azionato da una leva a bilanciere sita sulla destra del propulsore.
Unico e dall’ampio diametro il suo tachimetro contachilometri, al cui
interno si trovavano le 4 classiche spie luminose. Bellissima la livrea:
l’intenso color rosso fuoco del serbatoio e il grigio argento dei
parafanghi, dei fianchetti laterali e dei due bauletti portattrezzi.
La V7 700 rappresentò la prima ottima motocicletta della Casa di Mandello ad essere dotata di trasmissione finale ad albero
cardanico. I collaudi del suo prototipo iniziarono nel 1964. Lo
scheletro di questa prima moto dalle sembianze di quella che diverrà in
seguito la V7 definitiva, era un telaio a doppia culla chiusa in tubi
d’acciaio, con forcella anteriore teleidraulica a steli rovesciati e
forcellone posteriore oscillante per mezzo di un doppio ammortizzatore
idraulico a molla esterna cromata e regolabile su 3 posizioni, che
rendevano il mezzo sicuramente molto morbido e confortevole; la scarsa
potenza dell’impianto frenante risultava il tallone d’Achille fin
dall’inizio della produzione del “Bufalo di Mandello”. Entrambi i freni
erano infatti a tamburo centrale e misuravano 220 mm: l’anteriore dotato
di camma doppia, mentre il posteriore di camma singola. Il peso della
V7, di circa 230 Kg, era decisamente elevato rispetto alla media delle
altre motociclette, ma ciò faceva intendere quanto questo mezzo fosse
robusto ed affidabile, soprattutto se si pensa che la sua velocità di
punta toccava i 160 Km/h.
La V7, presente in listino fino al 1975, nelle sue varie versioni ed allestimenti, è oggi considerata un cult, una moto che fu progettata essenzialmente per durare nel tempo e per non sfigurare nemmeno rispetto alle moto più moderne.
Guidare
oggi una V7 è come ballare con una bella ragazza. Proprio così, la
nostra amata V7 la si può condurre paciosamente ad una velocità di
crociera di circa 70/80 km/h, godendosi il panorama, oppure la si può
lanciare ad alte velocità accompagnandola però sempre nelle curve; come
nella danza, infatti, bisogna indicare alla propria dama i diversi passi
da seguire, con lei si deve mostrarle la giusta traiettoria.
L’affiatamento che si può avere con questa affascinante maxi è simile a
quello che si crea spesso tra uomo ed animale: infatti, alcuni mezzi
storici e tra questi vi è sicuramente anche la V7, possiedono un’anima. I
due carburatori palpitano, mentre i possenti cilindri riscaldano e
proteggono le gambe del centauro; il suono, perché solo così si può
definire ciò che si sente stando alla guida della moto, è un ritmo
antico, ricco di storia; la V7 riesce a portarci indietro nel tempo, a
farci fare un tuffo in quel passato che fa cadere, ad ogni accelerata,
la sua grigia patina per diventare sempre più il nostro presente.
Testo: Pier Paolo Fraddosio
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